Pampaloni e Apollonio sobillatori
Subito   dopo   l’   annuncio   dell’   armistizio   dell’   8   settembre   1943,   i   capitani   Amos   Pampaloni   e Renzo   Apollonio   si   rendono   responsabili   della   consegna   di   armi   al   nemico,   cioè   ai   partigiani greci di Cefalonia, commettendo un  ben preciso reato, quello di tradimento. La consegna delle suddette armi viene fatta prima che al comandante della Divisione Acqui, generale Gandin, sia pervenuto l’ordine di resistere ai tedeschi: cosa che avviene, a seconda delle fonti, l’11 o il 14 settembre. Mentre in quelle stesse date il gen. Gandin avvia febbrili trattative sulla base dell’unico ordine ricevuto dal Comando dell’XI^ Armata di Atene, che prescrive la cessione delle artiglierie e delle armi pesanti ai tedeschi, Pampaloni ed Apollonio consegnano armi ed altro materiale ai ribelli greci, che sono comunque nostri avversari. Questo fatto trova conferma in un’intervista resa da Pampaloni al professore tedesco C. Schminck – Gustavus: Pampaloni: “Io avevo dato le nostre armi ai partigiani. Sa, i greci sono molto radicali nei loro sentimenti: o ti odiano o ti adorano. Io per il fatto di aver consegnato le nostre armi, per loro ero un eroe, un grand’uomo”. Schminck – Gustavus: “Le armi? Ma dove le aveva prese?”. Pampaloni: “Nei giorni dopo l’8 settembre svolgevo un servizio di guardia alla polveriera e all’armeria della divisione. Vennero dei partigiani greci e mi chiesero delle armi. Diedi loro dei moschetti e delle munizioni”. (v. La div. Acqui a Cefalonia – Mursia 1993 pag. 250). Ancora nell’articolo “Il redivivo di Cefalonia”, scritto da Pampaloni per la rivista Storia e Dossier  (fascicolo di aprile 2000), si può leggere: “Devo dire che la mattina del 9 settembre, dopo l’armistizio, la mia batteria era di guardia al magazzino divisionale delle armi e munizioni e io feci distribuire ai partigiani greci moschetti e mitragliatrici dato che il magazzino ne aveva in abbondanza”. Insieme ad Amos Pampaloni, comandante della storica Divisione Acqui, sopravvissuto alla strage di Cefalonia, l'altro responsabile, secondo Giuseppe Russo, è il capitano Renzo Apollonio, che "sobilla" i militari italiani. La mattina del 13 settembre, infatti, il capitano Apollonio ordina alla 33° divisione artiglieria di sparare sulle motozattere tedesche e, malgrado l'ordine del colonnello Romagnoli di cessare immediatamente il fuoco, continua a combattere. Gianfranco Ianni, in un'intervista rilasciata nel gennaio 2012, sostiene che Pampaloni, riguardo al comportamento di Apollonio durante la strage afferma che, mentre  dopo l’armistizio l’unico desiderio dei soldati è di tornarsene a casa, Apollonio cerca, invece, di convincerlo a valorizzare la sedizione per spianargli la strada a una fulgida carriera militare. O in subordine, politica. Ed è Pampaloni, infine, a riconoscere che il deliberato attacco alle motozattere contribuì in maniera determinante ad acuire nei tedeschi la risoluzione di porre in atto l’ignobile rappresaglia contro i soli ufficiali della Acqui. Date queste premesse è possibile accusare i due capitani di “reati” perseguibili per legge.  A tale riguardo rileviamo che il Codice penale militare di guerra al titolo “Dei reati contro la fedeltà e la difesa militare” prevede: Art. 51 – (Aiuto al nemico) – Il militare che commette un atto diretto a favorire le operazioni militari del nemico, ovvero a nuocere altrimenti alle operazioni delle forze armate dello Stato italiano, è punito con la morte con degradazione. Detto articolo è così chiarito nei ‘Lavori preparatori e finali dei Codici Militari’: “Quanto all’altra delle forme di favoreggiamento al nemico, cioè di prestare aiuto al nemico, senza partecipare direttamente alla guerra contro lo Stato nazionale, la natura stessa del reato determina una molteplicità di modi, e così un elemento materiale vario e complesso: ad esempio impedire il buon esito di una operazione militare, togliere alle forze belliche qualche mezzo di agire contro il nemico, agevolare a questi la difesa o l’offesa, fornire armi, viveri ecc. “ La conclusione che ne deriva è che se si fosse proceduto immediatamente, a mezzo di una Corte Marziale nominata dal Comandante, i due ‘eroi’ sarebbero stati immediatamente passati per le armi. Quanto ai rapporti intercorsi con i partigiani greci prima e durante l’8 settembre, avrebbe invece trovato applicazione l’articolo che segue: Art. 56 ( Comunicazione illecita con il nemico, senza il fine di favorirlo) – Il militare che, senza il fine di favorire il nemico, ma senza autorizzazione o contro il divieto dei regolamenti o dei superiori, entra in comunicazione o corrispondenza con una o più persone delle forze armate nemiche è punito con la reclusione da uno a sette anni; e se trattasi di fatto abituale o, comunque, se ricorrono circostanze di particolare gravità, con la reclusione non inferiore a dieci anni.